Tra madre e suocera

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Intervista con Ilaria, 35 anni, avvenuta all’inizio del nono mese

Diventare madre, senza smettere di essere figlia: pensi sia possibile?

 Tutto dipende dal rapporto che sei riuscita a costruire (o a recuperare) con la tua famiglia d’origine. Io sono stata un’adolescente turbolenta. Ho contestato, criticato, litigato, demonizzato la facilità benestante della mia nascita. Sono uscita di casa a diciotto anni, ho viaggiato, fatto ogni genere di lavoro (dall’interprete alla cameriera), ho rotto tutte le consuetudini di due genitori iper-tradizionali e conservatori. Adesso che sono incinta, non desidero altro per mia figlia che una bella casa e una bella famiglia. Forse è un fatto di maturità o di imprinting. Sono cresciuta così: la ribellione era solo un’etichetta dell’età. Superficie, non verità. Così, per gradi, a singhiozzo, sono ritornata sui miei passi.

E i tuoi genitori ti hanno accettata?

Oggi posso dire di provare per mia madre una grande stima. Nonostante disapprovasse le mie decisioni e avesse fatto di tutto per contra- starle, non ha mai chiuso la porta della confidenza. Ho sempre avuto la sensazione di poter, comunque, contare su di lei. Forse sono stata tanto veemente nel distaccarmi solo perché ero certa di poterci ripensare. Non era coraggio: in qualsiasi momento, io avevo un posto in cui tornare.

La gravidanza ha contribuito a cambiare il vostro rapporto e a riavvicinarvi?

C’erano già stati dei progressi. Ero tornata a vivere a Roma, mi ero sposata con un ragazzo di Londra, conosciuto in uno dei miei infiniti traslochi, avevo ripreso contatto con qualche amica del liceo, il mio «vecchio ambiente», mi ero trovata un lavoro come traduttrice. Un intero processo di «normalizzazione». Con mia madre non avevamo mai smesso di sentirci e, adesso, vivendo nella stessa città, era più facile incontrarsi. Abbiamo preso l’abitudine di vederci una volta alla settimana, in territorio «neutro»: facevamo insieme colazione, ogni lunedì mattina, con cornetto e cappuccino, in un piccolo bar vicino al quartiere dove ho trascorso l’infanzia. Quando ho scoperto di essere incinta, era circa metà settimana. Non l’ho chiamata subito. Ho aspettato il nostro lunedì per dirglielo.

Lei come ha reagito?

Ancora una volta, mia madre è riuscita a sorprendermi. Invece di essere stupita o felice o preoccupata (o almeno di tradire qualche emozione), mi ha fatto sentire subito circondata da rispetto solidale e calmo. Come se provasse ammirazione. Lei che sapeva esattamente che cosa vuol dire avere un figlio, lei che c’era passata, che aveva sentito quello che io stavo sentendo… Ricordava e mi ammirava. Il giorno dopo, si è presentata a casa mia con un enorme mazzo di fresie (i suoi fiori preferiti) e una giacca nuova, stretta stretta a vita, rosso smalto: «Mettitela in questi due mesi. Poi per tanto tempo ti dimenticherai di essere anche una donna, una bella donna».

Con la famiglia di tuo marito hai dei contatti?

La madre di Joseph si è trasferita in Italia l’anno scorso. Praticamente viviamo a due isolati di distanza. È una donna indipendente, molto discreta, non mi ha mai dato problemi. Almeno fino a quando non sono rimasta incinta. Tanto sono migliorati i rapporti con mia madre, quanto sono peggiorati quelli con mia suocera. È come se questa bimba che sta per arrivare l’avesse affrancata dalla scelta di tenersi in disparte. Non passa giorno senza che mi telefoni per dirmi che ha letto, sul tal giornale, che alle donne incinte fa bene, chissà, il melograno e fa male la papaya… Una serie di sciocchezze e pretesti per dire la sua. Invece di intenerirmi o almeno di farmi ridere, m’innervosisce. Mi sono scoperta un’aggressività difensiva che non conoscevo. Dica di me o su di me quello che vuole, ma che non tocchi mia figlia.

Adesso sei all’inizio del nono mese. Che cosa ti aspetti dalla fine della gravidanza?

C’è ancora un ostacolo non indifferente da superare, il parto. Devo ammettere che non ci ho pensato fino a ora, ma, da quando ho cominciato il corso pre-parto, è diventato un pensiero fisso. Forse sarà colpa del sadismo dell’ostetrica: ci fa fare degli esercizi orrendi, con una pallina da tennis che dovrebbe rappresentare la testa (miniaturizzata) del bambino e che bisogna spingere per allenare i muscoli. L’ultima lezione mi ha sconvolto. Io mi immaginavo in sala parto, sdraiata sul lettino, con intorno un’efficiente équipe medica che faceva tutto. E invece ci ha descritto scene a dir poco agonistiche. Ci ha detto che dipende solo da noi, che dobbiamo muoverci, salire a quattro zampe sul letti- no, aiutarci con tutti i muscoli del corpo. Per quasi mezz’ora ci ha insegnato a urlare in «modo espulsivo». M’imbarazza pensare che ci si aspetti questo da me. M’inquieta l’idea di dovermi esibire in questa pantomima. E poi io non voglio gridare.

Chiederai a tuo marito di seguirti in sala parto?

Qualcuno lo sconsiglia. Mi dicono: non farti vedere in quello stato, rischi di impressionarlo, di non piacergli più. Io credo invece che sia importante coinvolgerlo. Già in questi nove mesi ho sentito il peso della gravidanza tutto su di me. Anche senza fargliene una colpa, sono io quella che deve lasciare il lavoro, io che sto spendendo un capitale in cosmetici antismagliature, io che porterò i segni sul corpo, io che dormo pochissimo. Voglio che, almeno con gli occhi, anche lui partecipi.

Come te lo aspetti?

Ho troppa ansia per riuscire a immaginarlo. Più si avvicina il momento del parto e più mi terrorizza. Ho paura dell’episiotomia, paura della prestazione e una paura pazzesca del momento in cui dirò: ci siamo. In