Per ambivalenza si intende l’insieme dei sentimenti di amore e di odio, per lo più inconsci che si provano verso qualcosa o qualcuno. Anche verso il proprio futuro figlio, che come si è detto, rappresenta un corpo estraneo per la madre (cfr. L’embrione, un corpo estraneo per la madre?) che nel corso della gravidanza, per salvarlo dai suoi biologici attacchi distruttivi, arriva a considerarlo una parte del proprio corpo. Di quel corpo su cui si concentra la sua attenzione, perché nei nove mesi di attesa si modifica e reagisce in modo diverso da prima.
Il modo in cui la donna vive la gravidanza è rivelatore del grado di ambivalenza inconscia che nutre per il futuro bambino. Essa è particolarmente intensa soprattutto in due tipi di gestanti: quelle che si “possono definire “falsamente presenti” in quanto negano in modo parossistico il loro stato e quelle che invece drammatizzano e esasperano i sintomi della gravidanza “subita” come se fosse una malattia.
Le prime continuano a vivere come se non fossero incinte, senza apportare alcun cambiamento a abitudini di vita non proprio compatibili con la gravidanza: fumano, si affaticano eccessivamente anche quando avrebbero la possibilità di evitarlo, commettono gravi errori dietetici, svolgono attività sportive controindicate e anche rischiose. Sono scarsamente coinvolte in ciò che stanno vivendo, a cui concedono poco spazio anche a livello psichico. Considerano una perdita di tempo concedersi fantasie, pensieri, immagini sul bambino e sulla loro vita dopo che sarà nato. In modo molto pragmatico pensano che non sia necessario prepararsi a qualcosa che affronteranno al momento in cui si presenterà. La loro vita procede normalmente “nonostante” la gravidanza; si rendono conto di essere incinte solo quando non possono più ignorare i cambiamenti del loro corpo, o fare cose che prima erano in grado di fare. (cfr. Dire no per nove mesi)
Le altre, da quando scoprono di essere incinte, lamentano forti e incontrollabili sintomi che si alternano durante tutto il periodo della gravidanza e che le costringono a una vita da malate, limitata negli spostamenti, intervallata da un susseguirsi di visite, analisi, esami. Per alcune il malessere e i rischi sono reali, non inventati, dunque risulta difficile ipotizzare che siano la manifestazione di una conflittualità profonda che si serve del corpo per esprimersi. Altre invece, anche in assenza di sintomatologia, vivono la gravidanza “sotto una campana di vetro”, temendo che qualsiasi normale attività possa nuocere al bambino. Un atteggiamento di eccessiva precauzione, di ingiustificata paura “per tutto”, che nasconde il desiderio profondo di mettersi al riparo dalla propria sconosciuta aggressività.
È interessante notare che anche le ragioni della scelta di come partorire rispecchia il modo in cui è stata vissuta la gravidanza. Un parto non medicalizzato, naturale, autogestito, che magari si svolge in casa, motivato dal desiderio di garantire al bambino uno stretto e precoce contatto, è richiesto soprattutto dalle donne del primo gruppo che dimostrano di non sapere, (o di aver dimenticato) che il rapporto con il bambino si costruisce giorno dopo giorno fin dall’inizio della gravidanza.
E’ come se costoro volessero delegare a un momento particolare come quello del parto la presenza mancata durante la gravidanza.
L’intervento medico spesso è accettato più facilmente (o addirittura sollecitato), come logica conseguenza di una gravidanza-malattia, dalle donne che si ritengono incapaci di partorire spontaneamente.
In entrambi i casi è facile che la conflittualità inconscia, che ha caratterizzato l’attesa, si ripresenti nel periodo del puerperio con stati di malessere di varia intensità che rendono inevitabilmente più difficile il contatto con il bebè.
Dott. M. Marcone www.marcellamarcone.it