La madre morta e la bambina

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cfr. https://maternita360.it/se-la-mamma-si-allontana-psicologicamente/

Edvard Munch, pittore norvegese,  nato nel 1863 e morto nel 1944, è considerato tra i maggiori interpreti della stagione simbolista degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, di cui anticipò l’uso esasperato e violento del colore.

Edvard Munch non ha lasciato soltanto il segno con le sue opere nella storia dell’Arte, ma con la sua travagliata biografia, che emerge potentemente dai sue opere, è riuscito a delineare una sorta di percorso psicoanalitico potente e ben definito. Il pittore norvegese trascorse un’infanzia infelice segnata dalla malattia – la sua salute fin da piccolo è malferma – e dai terribili e ricorrenti lutti familiari: a cinque anni Edvard perse la madre a causa della tubercolosi e quando ne aveva quattordici morì l’amata sorellina Sophie. In seguito il pittore perse l’autoritario padre per un ictus e un’altra sorella venne ricoverata a causa della schizofrenia. In questo quadro familiare desolato Munch riuscì ad esorcizzare paure e nevrosi grazie ai suoi quadri: “La sorellina malata”, “L’Urlo”, “La madre morta e la bambina”, “L’insonne” ma anche i numerosi autoritratti non furono altro che regressioni artistiche nel male di vivere, testimonianze eterne di pericolosi percorsi esistenziali. Munch, schivo, misogino e affetto da nevrosi (tanto da causarne un breve ricovero in un clinica psichiatrica) non superò mai i suoi vissuti traumatici ma grazie ai suoi dipinti in qualche modo riuscì a convivere con i fantasmi della mente.

Come egli stesso scrisse «Nella casa della mia infanzia abitavano malattia e morte. Non ho mai superato l’infelicità di allora. E allora ho vissuto con i morti». I lutti e la povertà resero particolarmente cupa l’atmosfera in famiglia ed inculcarono nel ragazzo la  visione del mondo triste e addirittura macabra che lo renderà poi celebre. Fin dall’infanzia dimostrò, evidentemente anche per resistere al clima depressivo della famiglia, grande propensione per l’arte. Le primissime esperienze artistiche di Munch riprodussero i disagi economici che affliggevano la famiglia, raffigurando gli interni di quegli appartamenti degradati dove essa era costretta a vivere.

A diciassette anni, iniziò a studiare scultura e poi fu iscritto ad una scuola di arti e mestieri. Durante questo periodo, Munch fuse varie influenze, fra cui quelle esercitate dal Naturalismo e dall’Impressionismo (non a caso, parecchie delle sue prime opere ricordano molto quelle di Monet) ed entrò in contatto anche con i circoli bohémien di Oslo, e da questa cerchia di intellettuali ribelli, che l’artista sovente raffigurò in varie opere, derivò lo spirito autobiografico che avrebbe poi permeato la sua attività artistica, descrivendo nelle sue tele e nelle sue grafiche la propria vita tanto ricca di episodi dolorosi. Come egli stesso scrisse “I miei quadri sono i miei diari».  Munch si riconosceva pienamente nella «reazione contro il realismo» di Gauguin, e il suo credo secondo cui «l’arte è frutto dell’uomo e non un’imitazione della natura». Di conseguenza in una composizione apparentemente realistica,  l’artista raffigurava un determinato stato d’animo. Al sentimento profondo e malinconico della natura Munch unì un senso doloroso dell’amore e della morte, in opposizione ai valori borghesi, influenzando molto l’espressionismo tedesco

Dal 1889 al 1908 viaggiò molto all’estero (a Parigi, Nizza, Berlino, in Italia e in Germania), ma lavorò spesso anche in patria soggiornando preferibilmente in una casa in uno dei fiordi di Oslo il cui paesaggio appare spesso nelle sue opere. Negli anni 1908-09 una malattia nervosa lo portò per mesi in una clinica di Copenhagen. Guarito, si stabilì vicino ad Oslo dove fino al 1916 lavorò a importanti commissioni pubbliche, come le  grandi composizioni del ciclo pittorico per l’Aula magna dell’università di Oslo. Dal 1920 si trasferì a Ekely (sempre in Norvegia), dove visse per lo più isolato fino alla morte solitaria.

La madre morta e la bambina (1897-1899)

Come si è detto nella breve biografia dell’artista, egli perse la madre a cinque anni. E’ quindi chiaro che in questo quadro, che è tra i più noti dell’artista, egli si immedesima completamente nella figura della bambina disperata per la morte della madre.

La solitudine e l’incomunicabilità della bambina sono rappresentate in modo agghiacciante. I familiari sono in un’altra posizione spaziale nel quadro, cioè in un’altra situazione psicologica ed emotiva: sono al di là del letto della madre, oltre la morte; e nessuno ha un volto, nessuno  parla, nessuno abbraccia, nessuno guarda la bambina, e addirittura nessuno può vedere che le sta succedendo. Lei è davanti, al di qua di una perdita così dolorosa, non può ancora tollerarla (ma imparerà mai a farlo?); inoltre quella morte la separa da tutti gli altri e l’unico modo per non esplodere, per sopravvivere, è rimuovere,  voltare le spalle a quell’oggetto scarno, duro, essenziale, informe, incolore che sembra inciso nella roccia, o comunque in una materia diversa dal resto del quadro. La bambina è davanti e la figura orizzontale della madre morta pare incrociare, trafiggere la figura verticale della bimba sola, inorridita, disperata, quasi inserita, appoggiata (con-fusa) al letto della mamma, come sembra suggerire il lenzuolo che si inarca dietro di lei, come risentisse del peso della piccola. Il pavimento sotto di lei sembra sprofondare, ha dei sussulti, delle onde sismiche, singhiozza. La bambina, vestita dello stesso colore emotivo, sta vivendo un terremoto interno.

Il silenzio della morte è come un urlo che viene dall’interno, un dolore straziante che sbarra gli occhi, che costringe la bambina a tapparsi gli orecchi, a bloccare il sentire, a tenersi la testa per timore di andare in frantumi. Una catastrofe per quel bambino di cinque anni che Edvard proietta e lucidamente vede nella bambina.

C. Barbano  barbanoc@gmail.com