Mai più sola

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Intervista con Francesca, 39 anni, avvenuta al settimo mese di gravidanza

Iperattiva, «in carriera», una donna che ha sempre organizzato la sua vita e quella degli altri: come si affronta la gravidanza lavorando dieci ore al giorno in un quotidiano?

Restare tenacemente aggrappata alla maschera dell’efficienza: questa è stata la mia sfida. Ho vissuto questi primi sette mesi di gravidanza con un senso di performance. Volevo dimostrare, a ogni costo, di potercela fare, di essere sul lavoro esattamente come prima, altrettanto presente e produttiva. Ho richiesto a me stessa uno sforzo enorme. Perché aspettare un bambino è una vera rivoluzione, anzi una defla- grazione, del corpo e della testa. È come entrare in una specie di centrifuga: ogni pezzo della tua vita viene scardinato, rovesciato, rimesso in discussione. È un grande caos, passato il quale tutto torna a posto, ma con un ordine nuovo. La scala di valori della tua vita resta totalmente invertita. Difficile, all’esterno, recitare la parte di sempre.

Deflagrazione del corpo: che cosa intendi?

Che tutti ti raccontano delle grandi menzogne sulla gestazione. Non so se dipende dal fatto che io sono una mamma attempata (o forse dovrei dire, con uno dei tanti, meravigliosi eufemismi ipocriti, matura?). Ci millantano che la gravidanza non è una malattia. Io potrei fare, mese dopo mese, un elenco infinito di sintomi. Ho cominciato con un prurito terribile e inspiegabile in tutto il corpo. Poi, il gonfiore. Ben prima della pancia, ogni centimetro del mio corpo ha cambiato forma e, mediamente, raddoppiato dimensione. Sono sempre stata orgogliosa dei miei piedi magri e affusolati: adesso sembrano plastica espansa. Ho due misure di seno in più, braccia da body-builder, un collo che definirei, con ottimismo, vasto e una faccia che sembra disegnata da un compasso… Nei primi mesi, non è il peso del bimbo che rallenta i movimenti, è il tuo stesso corpo, ingigantito. Fortunatamente, non ho avuto nausee, ma, in compenso, ho dovuto lottare con una sonnolenza imbarazzante e persistente. Ti dicono:  ascolta il corpo, assecondalo. Io, se avessi seguito le mie vere sensazioni, avrei dormito diciotto, venti ore. Il mio unico desiderio, appena sveglia e durante tutto il giorno, era di ritornare a letto.

E invece hai lavorato freneticamente fino alla scorsa settimana, quando è cominciato il periodo di congedo per maternità.

Non avrei resistito un giorno di più. Però, sono molto orgogliosa di avercela fatta: neanche un’ora di malattia! Il merito va anche al mio compagno: lui sì, ha retto il contraccolpo delle trasformazioni con un’imprevista capacità contenitiva. E una rapidità di adattamento che non mi aspettavo. Da un giorno all’altro, si è ritrovato senza la virago invadente, anzi onnipresente, che, nel giro di un anno, gli ha rivoluzionato la vita, si è trasferita a casa sua, gli ha portato un gatto, un criceto, centinaia di vestiti, un conto del telefono spropositato e un affollamento di amici, impegni, viaggi, feste. Di colpo, la superorganizzata (e stressata), quella che sa sempre che cosa bisogna fare e quando, quella che non chiede mai aiuto, quella che lavora, studia, parla al telefono, tiene la casa, ascolta musica, esce, fa, disfa, quella che ha voluto, a tutti i costi, un figlio («perché no, non ci cambierà la vita; a noi no»), si è trasformata in una specie di bambina petulante e paurosa. Se ho continuato a sostenere la parte della donna forte all’esterno, in casa ho subito una vera e propria regressione. Non avevo più la forza di fare niente e sentivo solo un gran bisogno, anzi un’ansia insaziabile, un po’ ossessiva, di tenerezza e di rassicurazione. Come un contenitore rotto, senza fondo: più ne ricevevo e più ne sentivo la mancanza. Non bastava mai.

 Di che cosa avevi paura?

Innanzitutto di non piacergli più. Non sono mai stata una bella donna. Interessante, semmai, per usare l’ennesimo eufemismo. Adesso, questa specie di esplosione debordante, ero terrorizzata dall’idea che mi trovasse ridicola, che guardasse le altre donne, che non sopportasse la mia nuova andatura pacata, quasi matronale, che trovasse il mio bamboleggiare infantile stucchevole. Dal quarto mese, ho cominciato a lasciargli in cucina bigliettini come: «Francescaandrea escono e vanno a lavorare, ma vorrebbero tanto, al rientro, trovare la tavola già pronta. Un doppio bacio». Patetica!

 Francescaandrea: i due nomi, il tuo e quello di tuo figlio fusi?

Sì, la sensazione di essere in due è cominciata molto presto. Appena mi sono concessa di pensare a mio figlio. Prima dell’amniocentesi non avevo il coraggio di lasciarmi andare. Temevo che qualcosa andasse storto. Era una paura fredda, non irrazionale. Sapevo di aver aspettato troppo. Sapevo che, alla mia età, la percentuale di rischio rispetto alla sindrome di Down, è molto più alta. Così non sono mai entrata in un negozio premaman, non ho fatto nessun progetto, nessun acquisto, non ho provato neanche a immaginare come sarebbe stato. Censuravo qualsiasi pensiero su di me e su mio figlio. Forse non sarei diventata mamma, forse avrei perso il bambino. Quando ho avuto i risultati, di colpo, tutte le sensazioni che avevo rimandato, soffocato, rimosso, sono tornate vive. Con un senso di sollievo potente, quasi incontenibile, mi sono sentita mamma: la fiera madre di un figlio maschio, Francescaandrea.

 Da allora non hai più avuto paura?

Sono piena di paure. L’elenco è appena cominciato. Allontanato il dubbio dell’anormalità, ho iniziato a preoccuparmi delle malformazioni. L’ultimo pensiero ricorrente è: avrà tutte le dita, delle mani e dei piedi? Il mio ginecologo non mi prende sul serio. All’ultima ecografia ha controllato i parametri: le misure sono a posto, tutto è nella norma. L’ho supplicato di contargli le dita, per togliermi ogni dubbio. Mi ha rispo- sto che non è importante. Per me lo era.

 E come continua l’elenco delle ansie?

Sarà frivolo, secondario, scioccamente banale, ma ho molta paura di non tornare più come prima. Fisicamente, intendo. Persino il colore della pelle è cambiato, e i denti, la consistenza dei capelli: bisogna proprio desiderarlo un figlio per accettare tutto questo! Poi ho paura dell’abbrutimento. Temo di diventare una mamma che pensa come- una-mamma, parla come-una-mamma, mangia, dorme, vive come-una- mamma e non ha altri interessi. Ho paura di essere sopraffatta da mio figlio, dalle sue richieste, di diventare un erogatore a tempo pieno di latte, pappe, coccole, di mettermi in tuta già alle cinque del pomeriggio, col «becco d’oca» in testa, contenta e sfinita (e presumibilmente tradita con una meravigliosa, magrissima ventenne!). Ho paura di non farcela, di non essere all’altezza. E anche di passare in secondo piano, di perdere l’affetto e tutte le attenzioni di cui sono circondata adesso.

E il parto?

No, di quello almeno non ho paura, ma solo perché non ci penso. Non ancora. Non adesso